L'architettura della partecipazione è il titolo dell'intervento, divenuto poi un saggio ripubblicato recentemente da Quodlibert insieme ad altri scritti sui suoi due più celebri progetti partecipati per Terni e Rimini, che Giancarlo De Carlo, architetto genovese (1919-2005), fece a Melbourne nel 1971 per la terza conferenza del ciclo intitolato L'architettura degli anni '70 organizzata dal Royal Australian Institute of Architects.
Lo avevano preceduto nel 1969 il critico di architettura inglese Jim Richards con L'opinione di un critico e nel 1970 l'architetto Peter Blake - nato in Germania come Peter Jost Blach ma poi divenuto cittadino americano, è sua la famosa frase Form follows fiasco - con Le nuove forze.
L‘architettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti è l’aforisma più noto di Giancarlo De Carlo, come ci ricorda Massimo Locci su Presstletter.
Giancarlo De Carlo ha raccontato più volte che, giovane architetto, trascorreva alcune ore la domenica pomeriggio in un bar di fronte alle palazzine che aveva costruito a Sesto San Giovanni. Erano palazzine dell'Ina Casa, correvano i primi anni Cinquanta. Si sedeva e osservava come quegli appartamenti venivano vissuti... l'aneddoto riproposto da Francesco Erbani.
Giancarlo De Carlo ha raccontato più volte che, giovane architetto, trascorreva alcune ore la domenica pomeriggio in un bar di fronte alle palazzine che aveva costruito a Sesto San Giovanni. Erano palazzine dell'Ina Casa, correvano i primi anni Cinquanta. Si sedeva e osservava come quegli appartamenti venivano vissuti... l'aneddoto riproposto da Francesco Erbani.
In effetti mai come oggi la partecipazione al progetto di architettura e di urbanistica è vista come la principale via d'uscita per una nuova professione più attenta ai veri bisogni dei cittadini.
Non ci sono dubbi quindi sul fatto che Giancarlo De Carlo abbia avuto all'epoca una grande intuizione sul futuro della professione di architetto.
Condividendo pienamente il concetto espresso, il problema diventa allora capire come si fa a farlo veramente un progetto partecipato. Sicuramente il pensiero di De Carlo è particolarmente valido e importante per edifici e spazi pubblici, in cui non ci sono dubbi sul fatto che l'architetto debba lavorare all'interno di una cornice sempre più definita, come si può leggere già nel post dedicato alla relazione del professor Archibugi all'Inarch su architettura e pianificazione urbanistica.
Resta da chiarire però cosa può succedere nel caso di interventi privati, in cui il cliente può essere un imprenditore che vuole mettere sul mercato un intervento residenziale o terziario. Come si sviluppa il progetto partecipato quando non si sa chi saranno gli utenti dell'edificio?
De Carlo osserva che nelle riviste specializzate il giudizio sull'opera è legato quasi esclusivamente a valori figurativi, non all'uso che se ne fa e questo criterio non cambia neppure in altri mezzi di informazione meno legati alle mode del momento, come i libri di storia dell'architettura o le Università e neppure nelle conferenze di architettura. L'architettura è considerata un'arte e come tale lontana dalla realtà dell'uso quotidiano. In passato non succedeva, l'architettura era legata a chi la usava e la pittura, che la rappresentava come oggi fa la fotografia, mescolava sempre edifici e persone. Secondo l'autore è dalla fine del XVIII secolo, con lo sviluppo di una concezione romantica dell'arte che la gente è sparita dall'architettura.
De Carlo sa bene però che l'impressione generale è che sia dopo il Movimento Moderno che sono state realizzate le architetture e i quartieri più lontani dalle persone e dai loro bisogni, nonostante la preoccupazione iniziale dei suoi protagonisti, ben sintetizzata nel famoso detto La forma segue la funzione attribuito a Louis Sullivan.
Gli errori compiuti dagli architetti moderni quindi sono derivati da un'eccessiva semplificazione dei problemi da risolvere e dei temi da affrontare, causati dallo sviluppo ancora non adeguato delle scienze umane e sociali che hanno creato come utente finale un individuo studiato solo in chiave funzionale, trascurandone l'aspetto sociale. Più in generale la complessità della città come luogo di produzione e di scambio è stata vista come un elemento di confusione da semplificare attraverso la sua riduzione ad una macchina funzionale (zoning).
Nel tentativo di salvare Le Corbusier e i suoi discepoli De Carlo sostiene che lo zoning fu inventato dagli urbanisti tedeschi del XIX secolo per mettere ordine nello sviluppo urbano e poi si affermò in Inghilterra, Stati Uniti e in tutto il mondo industrializzato e arrivò ai moderni già pronto.
Non ci sono dubbi però sul fatto che fu proprio LC con la Carta di Atene a portare ai suoi estremi ideologici l'idea della macchina da abitare e della città con le funzioni ben separate.
Il capitolo zoning si conclude sottolineando le istanze di rinnovamento sociale che una parte del MM si proponeva con la nuova urbanistica e il suo equivoco sulla chiarezza che ha finito per semplificare in maniera sbagliata i rapporti tra persone e ambiente costruito.
Credo però che su questo punto, il concetto di chiarezza, la narrazione dell'autore si perda un po' nel tentativo di giustificare in maniera troppo ideologica il fallimento dei moderni, che hanno cercato (sbagliandosi) di cambiare la società attraverso la forma della città e dei nuovi quartieri residenziali che hanno progettato e realizzato.
Le forme urbane create sono talmente chiare - in senso reazionario o socialista e rivoluzionario? Davvero è così importante scoprirlo? - da diventare banali, avvilenti, ripetitive e ossessive. Appiattiscono l'ambiente costruito sia dal punto di vista fisico e formale che da quello umano e sociale ed è difficile non associarle ad alcuni regimi autoritari moderni che, come questo tipo di architettura e urbanistica, hanno cercato di trasformare l'uomo in una macchina.
Giustamente De Carlo sottolinea l'importanza degli studi compiuti dagli architetti moderni sulla residenza e sulla razionalizzazione degli spazi abitativi, che oggi utilizziamo costantemente.
Io aggiungerei il fatto che forse la casa ideale è quella che ha l'esterno antico, magari in pietra quindi ben ambientato e isolato, ma gli interni moderni con gli spazi ben sfruttati e illuminati e arredi contemporanei belli e funzionali.
La critica così indovinata e ben argomentata alla tendenza "formalista" dell'architettura, porta inesorabilmente la professione ad un bivio; da una parte la continuità con il passato più recente - possiamo constatare facilmente che la tendenza si è estremizzata portando con tutta evidenza la forma a debordare costantemente e l'architetto a fare sempre più la parte dell'artistoide - dall'altra una nuova dimensione della progettazione definita appunto l'architettura della partecipazione, tendenza in atto già da tempo e sempre più sviluppata nelle città di oggi, in cui le persone si riappropriano dei loro spazi di vita.
La questione principale quindi riguarda la maniera in cui questa architettura della partecipazione può essere messa in atto efficacemente, ma su questo punto sembra che l'autore non voglia dire molto, limitandosi solo ad alcuni appunti riguardanti: progetto e processo - ordine e disordine - sistemi aperti.
L'ultimo appunto che chiude il saggio De carlo lo intitola emblematicamente:
È morta l'architettura: Viva l'architettura.
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