Francesco
Garofalo, progettista dell’intervento di
ristrutturazione e ampliamento della stessa British School e quindi della sala
in cui si svolge l’incontro, introduce il dibattito e osserva con intelligenza
come in una città piena di spazi culturali e per
l’architettura, sia la British School a distinguersi per la sua spinta
al dibattito architettonico (altrimenti assente?).
Modera Franco Purini,
al centro anche anagraficamente, classe 1941, scuola Romana, progettista della Torre Eurosky in corso
di realizzazione a Roma in zona EUR.
Da una parte Vittorio Gregotti, scuola Milanese, classe 1927, allievo di Rogers
(Ernesto Nathan, direttore di Casabella dal 1954 al 1965), fondatore della Gregotti Associati International nel 1974 e autore di numerosi edifici in Italia e nel mondo, negli ultimi anni soprattutto in Cina, presenta la
sua ultima fatica “letteraria”: Incertezze e simulazioni. Sottotitolo Architettura tra
moderno e contemporaneo.
Dall'altra Pippo Ciorra, scuola romana, classe 1955, allievo di Quaroni, professore e curatore al MAXXI, autore di numerosi saggi e studi monografici,
presenta il suo nuovo libro Senza architettura. Sottotitolo Le ragioni di una crisi. Una specie di avvelenata (Guccini), come lo definisce lui stesso, sull'architettura italiana e la sua assenza.
Purini e Gregotti parlano dell’architettura italiana del Novecento definendola triste e sottolineando la sua tipica condizione di impossibilità con il ritornello costante: noi italiani non ce la faremo mai.
Ciorra li ha giustamente contraddetti, osservando che dal 1945 al
1970 l’Italia è stata una grande locomotiva, perché tutti i suoi attori hanno
lavorato insieme. In architettura poi abbiamo vissuto
un grande periodo e sono in molti ad averci copiato negli anni.
Quindi in realtà ce
l’abbiamo fatta, aggiungo io, a costruire un grande paese, nonostante tutti i
suoi problemi e le sue contraddizioni. Ho visto un bel documentario giorni fa
sull’Italia del dopoguerra e sono rimasto molto sorpreso nello scoprire che
l’Autostrada del Sole, la Napoli-Milano per intendersi, 760 km ca, con ponti e viadotti appenninici, è stata realizzata in soli 8 anni, dal 1956
al 1964. Oggi anche con tecnologie decisamente più avanzate, ci riusciremmo con
questi tempi, considerando che per 5km di metropolitana con 4 stazioni
superiamo i 7 anni, esclusi ritardi in opera? Non ci
dimentichiamo che allora l’Italia era un polo di attrazione culturale, dal
cinema all’arte e all’architettura. Credo che non si potranno mai capire a
fondo i problemi dell’architettura se non si affrontano insieme a tutto il
resto della società.
Ciorra dice
che l’architettura è composta fondamentalmente da tre aspetti: lei stessa come
significato più il programma e la tecnica. L’architettura italiana ha forzato
moltissimo la componente del significato a scapito delle altre due, creando uno
squilibrio ed un corto circuito, che l’ha relegata per molti anni in un angolo
da cui fa grande fatica ad uscire. Sostiene di essere sempre stato un critico di architettura, figura
però bandita in Italia, dove si poteva essere solo degli storici
alla Tafuri. L’architetto italiano “impegnato” non è mai
stato capace di parlare alle persone che dovevano abitare le sue opere, anche
perché l’architettura una volta realizzata era da disprezzare e la sua vita
successiva doveva essere ignorata. L’architetto è talmente geniale da essere
allo stesso tempo anche designer, artista, scrittore e da Aldo
Rossi in poi, si è perso completamente il rapporto con le altre arti ed è stato anche bandito lo studio della storia dell’arte. Sono argomenti estremamente
interessanti e illuminanti quelli che snocciola Pippo Ciorra, soprattutto
perché raccontati da uno che ci è nato e cresciuto in quel mondo, che era talmente
ideologizzato da perdere completamente il rapporto con la realtà e con la vita delle persone che però nelle loro architetture avrebbero dovuto
abitare, lavorare e in generale vivere.
Gregotti
invece ha parlato della scomparsa della tipologia, come di una delle cause della perdita di significato
dell’architettura, ridotta esclusivamente a contenitore generico rivestito da
una pelle accattivante, che poi ha generato il grande successo della facciata
tecnologica. Io mi ricordo molto bene che Aldo Rossi nel suo bel L’architettura della città, per criticare il funzionalismo, osservava
giustamente che molti spazi urbani di grande qualità sono
delimitati da edifici la cui funzione non è così ben determinata e
anzi è spesso cambiata nel tempo, senza però che questo togliesse qualità. Potrebbe sembrare che le due cose siano leggermente in contraddizione,
ma penso che Gregotti si riferisca più che altro alla
riconoscibilità di alcune tipologie edilizie, che oggi sicuramente abbiamo perduto. La ritroveremo?
Nessun commento:
Posta un commento