Sono finiti
i tempi dell'Accademia (forse anche della militanza politica…) e lo Stato non
decide (giustamente) quale linguaggio architettonico
si debba adottare, ma in molti paesi europei e non solo, al contrario che in
Italia, sembra che gli architetti e il mondo politico, produttivo e culturale
si muovano in maniera almeno apparentemente armonica, contribuendo insieme a
migliorare l'ambiente urbano proprio
attraverso le nuove realizzazioni.
Per questo motivo, pur condividendo in larga
misura le critiche alle “archistar”,
colpevoli di aver spettacolarizzato
eccessivamente la professione allontanandola dalle persone, direi che la cosa
più giusta è valutare l’opera di architettura nel contesto generale, nel suo impatto sulla vita della città e dei
cittadini, a volte anche a prescindere dal suo aspetto formale, almeno quando non sia così “indigesto” da
diventare fondamentale.
Sembra invece che negli ultimi anni questo processo di riqualificazione delle città e del
territorio con l’architettura in Italia non si stia sviluppando e molti alla
mia domanda “dov'è l'architettura italiana?” rispondono prontamente, quasi
infastiditi dalla mia ignoranza/ingenuità, che si trova all'estero. Io allora penso: sicuri che
questo abbia senso? Siamo sicuri cioè che abbia senso parlare e addirittura rallegrarsi dell’architettura italiana
all’estero?
Sembra una specie di strano esercizio di patriottismo
al contrario, orgoglioso e disfattista allo stesso tempo, quello di contare gli
studi che hanno rinunciato a lavorare in Italia.
Se, come penso, l'architettura è una
disciplina che esprime molto bene lo sviluppo e la civilizzazione (vedi Mies in architettura e civilizzazione) di un Paese, dire che l'architettura di una nazione
è all'estero equivale a dire che non esiste.
Se io Stato formo una categoria di
professionisti che dovranno poi contribuire a migliorare il Paese, le città e i territori, cioè gli spazi di vita
delle persone, ma poi sono costretti ad emigrare per lavorare, e con questo sia chiaro non
voglio dire che tutta la colpa sia delle istituzioni, ho fallito da tutti i
punti di vista, perché, se la vogliamo mettere in termini per così dire economici,
e da quando abbiamo scoperto lo spread sulla nostra pelle sappiamo bene che
oggi anche gli Stati sono sul libero mercato, ho "pagato" la
riqualificazione di altri Paesi del mondo, cioè in pratica di quella che oggi
posso considerare la mia concorrenza;
è come se avessi regalato dei giocatori alle squadre avversarie.
Recentemente è uscita per Einaudi una Storia
dell'architettura italiana 1985-2015 in cui gli autori Marco Biraghi e Silvia Micheli, ripartendo da
quel 1985 in cui si era fermato Tafuri con la sua Storia dell’architettura italiana 1944-1985, forse non a caso raccontano
proprio quei 20 o 30 anni di cui nella mia "ignoranza" parlavo nel post di
esordio. Confesso di non aver ancora letto il libro, ma ho trovato molto interessante l’introduzione (la
trovate sia sul sito della casa editrice Einaudi che sul blog doppio zero) in cui si affrontano con
coraggio temi piuttosto scottanti estremamente utili e vicini alla nostra
ricerca.
Se la leggerezza è quella degli impacciati
e sempre più proliferanti “oggetti volanti non identificati”, che con sempre
maggiore frequenza incrociano i cieli offuscati delle nostre città; se la
rapidità è quella con cui procedono le tanto sbandierate trasformazioni e
“riqualificazioni” urbane e le infinite e dispendiosissime opere
infrastrutturali; se l’esattezza è quella praticata nei cantieri, sempre più
poveri sotto un profilo inventivo, e sempre più lontani dalla qualità che aveva
reso illustre l’edilizia del nostro Paese negli anni cinquanta e sessanta: se
queste sono le “virtù” dell’architettura italiana dell’ultimo quarto di secolo,
allora l’architettura italiana dell’ultimo quarto di secolo è complessivamente
assai poco virtuosa…
Renzo Piano, MuSe Trento
(fonte doppiozero)
Massimiliano Fuksas, Palazzo Congressi EUR, Roma
(fonte artemagazine)
Contro l’architettura. Contro la
fine dell’architettura. Senza architettura. L’anticittà. Il tracollo
dell’urbanistica. Sono soltanto alcuni dei titoli dei
libri riguardanti l’architettura e la città usciti negli ultimi anni in Italia.
Il fatto che autori ne siano storici, critici e architetti di nome non attenua
– e anzi, per certi versi acuisce – il valore del dato che, pur nella diversità
delle posizioni sostenute, li accomuna: l’essere tutti improntati a una lettura
pessimistica – e in qualche caso addirittura catastrofista – della situazione
attuale. E a ben guardare, la negatività del giudizio non si limita soltanto al
momento presente ma si estende anche al periodo di “incubazione” di questo, un
periodo che abbraccia gli ultimi tre decenni passati…
Un tema su tutti, che taglia
trasversalmente la nostra ricerca (disvelandone la duplice natura
investigativa), è quello dell’identità dell’architettura italiana. Al di là
della sua complessità, ciò che ci premeva fornire era una (possibile)
interpretazione di un problema ripropostosi in maniera insistente proprio a
partire dagli anni ottanta, allorché l’agenda dell’architettura del nostro
Paese si è trovata a modificare i propri obiettivi rispetto ai due “gloriosi”
decenni precedenti…
A questo
proposito mi piace sottolineare il fatto che gran parte dei libri sopra citati
sono stati già oggetto di post e di spunti di riflessione sul mio blog e
continueranno ad esserlo.
In colleghi illustri di Senza architettura di Pippo Ciorra
Mario Cucinella, 3M Italy headquarters, Milano
(fonte Archdaily)
Cino Zucchi, U15, Milanofiori
(fonte zucchiarchitetti)
Sperando che gli architetti italiani
all’estero non me ne vogliano, io mi voglio occupare soprattutto di quello che
succede qui da noi, del perché è così difficile lavorare e farlo bene e di
quali sono le possibili soluzioni o
almeno le strade da intraprendere
per tentare di invertire questa
tendenza negativa.
Riguardo a questo credo che ci siano
almeno tre aspetti generali su cui
interrogarsi e lavorare, che non a
caso fanno capo ai tre protagonisti principali della trasformazione del territorio: l’amministrazione pubblica,
l’architetto e il committente.
Nessuna persona ragionevole infatti può pensare
che se il processo edilizio non si svolge in maniera “fluida” e non porta i
risultati sperati la colpa possa essere imputata ad uno solo dei tre.
Volendo quindi semplificare il quadro, direi che:
- la pubblica amministrazione dovrebbe contribuire a rendere più agevole l’intervento edilizio, quando
questo sia realmente compatibile con
la normativa, riducendo al minimo il peso di adempimenti burocratici puramente
formali (tanto per capirsi spesso nella documentazione da presentare vengono
richiesti gli stralci degli strumenti urbanistici che è l’operatore pubblico ad
aver adottato ed approvato, oltre a possederne gli originali)
- l’architetto dovrebbe essere più attento alle esigenze della committenza (senza
diventarne schiavo…), oltre che all’impatto
del suo intervento sul paesaggio, cercando di interpretare la sua funzione come
un “servizio” alla società, più che come una espressione della propria personalità
(e a volte delle proprie frustrazioni)
- il committente dovrebbe rispettare le regole e rendersi conto che la sua libertà spesso si
scontra con quella degli altri, per cui spesso bisogna limitarsi e capire che
se tutti fanno il proprio comodo il
territorio e la città diventano brutti ed ingestibili (perché non posso fare la
veranda se il vicino l’ha già fatta?)
Mi sembrano sufficienti come
buoni propositi per il 2014. O no?
Post scriptum
Tafuri nella sua premessa alla Storia
dell’architettura italiana 1944-1985 ha scritto:
La scelta delle
illustrazioni, infine, non risponde a criteri di gusto personale, bensì, come
ovvio, a criteri di documentazione storica.
Io aggiungo che nel mio caso le immagini sono
quelle scelte dagli autori del libro per presentarlo.
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