Mi sono imbattuto l’altro giorno in un interessante dibattito su radiotre, che prendeva spunto dal nuovo libro di Ciorra di cui parlavo nel precedente post. Protagonisti lo stesso Ciorra, a presentare il libro appunto, Mario Botta e Fulvio Irace. Se vi interessa lo trovate ancora sul web (non so per quanto tempo) a questo indirizzo:
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-d9e34648-6b4c-4b03-af68-5a1017565ee4.html
Naturalmente non ho intenzione di farvi il riassunto, ma solo soffermarmi su quello che più mi ha colpito. Dopo che Ciorra aveva “giustamente” snocciolato i numeri piuttosto strabilianti della nostra professione, Irace ha detto: forse più che Senza dovremmo dire Troppa Architettura! Credo proprio che abbia ragione, perché questa condizione così bizzarra e direi anche frustrata di molti architetti italiani, li porta, quando hanno l’occasione di costruire, a voler strafare, a riempire di troppe cose il progetto. Quindi si trovano a creare troppa architettura, dove invece a mio avviso ce ne dovrebbe essere poca.
Less is more diceva qualcuno che non era tanto male come architetto (Ludwig Mies van der Rohe 1886-1969).
L’architettura deve stare al suo posto e mettere a suo agio le persone. Non deve essere una protagonista ingombrante. Non tutti sono Ghery! (forse uno è già troppo…)
Less is more diceva qualcuno che non era tanto male come architetto (Ludwig Mies van der Rohe 1886-1969).
L’architettura deve stare al suo posto e mettere a suo agio le persone. Non deve essere una protagonista ingombrante. Non tutti sono Ghery! (forse uno è già troppo…)
io credo che non ci sia troppa architettura, anzi al contrario ce n'è troppo poca. gli sperimentalismi fini a se stessi non li considero architettura; per questi per tanto che sottrai non trovi certo un'anima o un'emozione. semplicemente non sono vissuti dalle persone. psicologicamente parlando influiscono solo negativamente sulla psiche umana non essendo in armonia col contesto, ma completamente slegati da esso, rompendo le fila della storia.
RispondiEliminaCiao,
RispondiEliminaio non so dove viva Irace.
Io vivo a Milano.
Una città che negli ultimi dieci anni ha saputo produrre solo la nuova Bocconi.
Tutto il resto sono esercizi di copiatura di ciò che altrove si è visto qualche decennio fa e, per il resto, grandi tagli, cesure infinite che spezzano la seconda metropoli italiana in una miriade di piccoli paesini privi di identità; paesi nei quali la gente non ha modo di incontrarsi se non nell'unico parco urbano, il sempione, o nell'ultimo bar alla moda per l'ennesimo insulso happy hour.
Da queste città, e giustamente, appena si può si scappa.
Non c'è un venerdi che il milanese medio non viva come frustrante se non è in partenza per qualche posto di "bella gente" come usa dire.
Insomma io tutta questa architettura non la vedo proprio.
Occorre, secondo me, cambiare il concetto di architettura.
Lavoro discreto, civile, misurato sulla realtà e per questo sufficientemente sognante, volto a fare in modo che la gente ami e viva il luogo dove risiede.
...un duro lavoro. Ci sono generazioni di architetti, deturpati dai vari ghery...che pensano che fare l'architetto sia fare quelle robe lì... ma, a ben vedere, fanno bene, non c'è nessuno nella tribù degli amministratori che abbia una minima idea del ruolo dell'architettura...e pochi, pochissimi critici dell'architettura. Il panorama non promette bene.
grazie per lo spunto di discussione.
ciao
Maurizio
Grazie a entrambi per gli interventi, pertinenti e interessanti. Forse devo una spiegazione. Il mio post è giocato proprio su questo doppio problema italiano: la poca architettura di qualità che si vede in giro e la troppa architettura che si vede spesso concentrata in maniera maldestra ed esagerata in un'unica realizzazione, dove quindi vediamo insieme forme, materiali e linguaggi diversi. Una confusione fisica e mentale lontana anni luce da quello che ho mostrato in figura, il padiglione di Mies, quasi la perfezione nella scelta degli elementi e nella loro composizione formale.
RispondiEliminaCiao a tutti...io concordo con Stefano invece. In prima persona ai tempi dell'università mi sono trovata più volte di fronte al foglio bianco con una sorta di "ansia da prestazione", che faceva sì che ogni punto fermo del mio modo di concepire il progetto architettonico venisse messo in discussione dalla paura di una eventuale banalità. Una distribuzione degli ambienti sensata? OVVIO. Una facciata lievemente in comunicazione con quelle adiacenti? ANCORA?
RispondiEliminaOra faccio purtroppo un altro lavoro, e con sguardo più smaliziato mi guardo intorno, e noto spesso nelle "opere architettoniche" che si aggirano qui per la capitale dei virtuosismi che non mi comunicano granché, se non un mal celato ricordo di quella sensazione di voler strafare, forse per non perdere neanche un centimetro di quella possibilità d'espressione che nel panorama italiano potrebbe essere l'ultima. E mi trovo ad interrogarmi sulla dubbia leggerezza della Nuvola...e sento davvero la mancanza di una scala di Carlo Scarpa.
Ciao, Vittoria
Brava Vittoria, hai colto bene il punto.
EliminaIl confine tra semplicità e banalità è molto sottile. Sicuramente non c'è niente di più "banale" della ricerca frenetica dell'originalità. Come tutti insomma. Un saluto