7 maggio 2015

la lezione di Jane Jacobs


In questo libro cominceremo, sia pure in piccolo, ad avventurarci nel mondo reale.

Forse in questa breve e semplice frase contenuta nell'introduzione del libro Vita e morte delle grandi città (americane), si racchiude il senso più profondo del pensiero di Jane Jacobs, che oggi rivive in qualche modo nel movimento mondiale jane's walk.


Il testo è stato ripubblicato in italiano nel 2009 da Einaudi - con il titolo di Vita e morte delle grandi città, sottotitolo Saggio sulle metropoli americane - impreziosito dalla prefazione di Carlo Olmo, il direttore del Giornale dell'Architettura.

Mi ha colpito molto vedere un quadro astratto (a me piace molto comunque!) - Suprematismo (con otto rettangoli rossi) di Kazimir Malevic -  come copertina di un libro che si batte proprio contro l'applicazione di idee astratte alla realtà. Sarà una provocazione?
Ho letto da poco questo libro sorprendente, di cui ho scoperto l'esistenza solo in tempi recenti, certamente non durante gli studi universitari e tanto meno nelle mie esperienze professionali.
Bisogna puntualizzare subito che il mondo reale della Jacobs non è quello che vive la maggior parte delle persone, ma quello di una giornalista molto curiosa, ben informata ed estremamente capace di tradurre in pensiero vivo e concreto l'osservazione della realtà.
Non credo che la Jacobs abbia molto successo tra architetti e urbanisti, ma non solo perchè, come si capisce bene leggendo l'introduzione del libro, sono il suo bersaglio principale, soprattutto quelli che aderiscono al pensiero derivante dalla Carta di Atene e dal funzionalismo


Mi è capitato non molto tempo fa di incontrare un architetto che lavora con i piani urbanistici a Roma (è molto ben inserito nei circuiti giusti, come si dice). Mi ha fatto capire, ammesso che ce ne fosse bisogno, che l'urbanistica la fanno dei tecnici la cui grande capacità è districarsi tra una serie di norme e numeri - indici, standard... - che però non sembrano avere come obiettivo la qualità dello spazio urbano pubblico e privato. A meno che qualcuno non pensi che avere tot mq di spazio libero a verde e a parcheggi consenta di ottenerla... (Soprattutto se, come capita a Roma nelle aree residenziali realizzate recentemente, le ampie aree destinate ai parcheggi sono semi-vuote e le auto dei residenti sono parcheggiate sotto casa, sul bordo della strada).
Jane Jacobs con la sua militanza di quartiere e nonostante tutte le differenze culturali, sociali, geografiche e urbane che ci separano, ha descritto benissimo e con largo anticipo molti dei problemi che vediamo oggi nelle nostre città, soprattutto nelle aree meno centrali. 
La cosa più importante è che non lo ha fatto scagliandosi contro l'idea di città in nome di un ritorno alla vita semplice immersa nel verde della campagna o di un paese, ma proprio in nome e per amore della città stessa e della necessità di salvarla. E ce lo spiega benissimo:


Nella prima parte dedicata all'analisi della città, applica un criterio induttivo, dal particolare all'universale, quindi si concentra sugli elementi principali della vita di una città. Giustamente inizia con i marciapedi che considera l'unità di base, il luogo più tipico, quello degli scambi sociali e dell'incontro. Analizzando un marciapiede in effetti si possono capire già molte cose sulla vita di un quartiere; la sicurezza dei marciapiedi determina la sicurezza e la salute sociale ed economica di un quartiere, così come la sua capacità di collegarsi al resto della città. 
Che si può dire quindi di tutte quelle aree della città in cui i marciapiedi sono slegati dalla strada e dalla vita pubblica e relegati a servizio del solo isolato o complesso edilizio?
L'analisi prosegue con i parchi di quartiere, che invece di essere considerati un bene assoluto, dovrebbero essere analizzati realisticamente per capire se sono apprezzati e frequentati o se invece diventano luoghi abbandonati, degradati e insicuri. Inutile dire che nel secondo caso occorrerà capire le ragioni, spesso legate alla loro errata localizzazione o alla mancanza di funzioni adeguate, per cercare di renderli più frequentati e vitali. 

Si passa poi ai vicinati urbani, di cui secondo la Jacobs esistono tre tipi: la città nel suo complesso, il vicinato di strada e il grande quartiere con più di centomila abitanti.
Anche qui l'autrice sfata uno dei miti più tipici e abusati dagli urbanisti:



La seconda parte del libro, intitolata Le condizioni della diversità urbana, è senza dubbio la più interessante, perchè qui Jane Jacobs conduce la sua personale analisi della complessità urbana giungendo ad individuare le quattro condizioni che definisce i generatori di diversità:
la mescolanza di funzioni primarie - gli isolati piccoli - gli edifici vecchi - la concentrazione.


Nonostante le accurate analisi supportate dall'osservazione e dalle ricerche dell'autrice, non possiamo essere certi che un quartiere più o meno grande dotato di queste quattro condizioni diventi città, ma non c'è dubbio che si tratta di elementi molto importanti da considerare se vogliamo inaugurare una nuova stagione urbanistica.
Non a caso negli Stati Uniti, dove non dimentichiamolo non esistono i nostri centri storici, Jane Jacobs è da tempo considerata una delle più importanti protagoniste del pensiero urbano contemporaneo e, come scrive Olmo nella prefazione, i New Urbanists hanno scritto il loro manifesto riprendendo molte tesi sostenute in questo testo.
Credo che sarebbe un grave errore però interpretare il libro della Jacobs come un manifesto contro la modernità rappresentata dalle auto e dalle strade di scorrimento o ancor peggio a favore del progetto partecipato come espressione degli interessi particolari ed esclusivi di un vicinato urbano in lotta contro l'evoluzione della città e della sua economia.
Preferisco piuttosto considerarlo un importante contributo culturale all'analisi della città, analisi che in realtà diventa quasi uno schema mentale e progettuale che può aiutare a costruire la città di domani, e perchè no anche quella di oggi.

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